Tom Standage, giornalista e digital editor dell’Economist, ha scritto, nel 2013, un libro sull’argomento: Writing on the wall: Social Media – The First 2000 Years.
I social network (sites) avrebbero origini molto antiche.
Lutero la usava
Standage parla del modo in cui i Romani comunicavano, come la scrittura dei messaggi sui muri. Di Cicerone, che usava i papiri per far conoscere il suo pensiero. E di Lutero, che scrisse le 95 tesi sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg, sfruttando quella che oggi viene chiamata comunicazione virale (la diffusione di informazioni grazie al comune “passa parola” tra le persone). Cambiano gli strumenti ma le finalità rimangono identiche: ieri come oggi, l’obiettivo è far circolare i messaggi e renderli pubblici.
Questione di cappotti
Ancora Standage afferma, in un articolo del 2013, pubblicato sul New York Times e riportato da Repubblica on line con la traduzione di Fabio Galimberti, che i caffè di fine Seicento, in Inghilterra, hanno caratteristiche comuni, relativamente al loro utilizzo e alle loro finalità, con gli attuali social network. L’accostamento nasce nell’ambito di un dibattito sull’efficienza del lavoro: i dipendenti di un’azienda lavorano meno se usano i social network? Sono uno strumento di distrazione o una possibilità di confronto creativo che stimola, al contrario, la produzione? Il giornalista evidenzia che un dibattito molto simile è avvenuto, nel Seicento, riguardo ai caffè inglesi: ritrovo per scambi di idee e opinioni, rispetto ai fatti di attualità, ma anche ambienti dove trovava spazio la nobilissima arte del pettegolezzo o del cappotto, se si preferisce. Emerge un ulteriore dato interessante: la nascita di caffè specializzati in dibattiti su argomenti come scienza, politica, commercio e letteratura. Dunque, è nei caffè l’origine dei social network (ma non solo nei caffè, come accennato prima) e nei caffè specializzati le radici dei social network di nicchia, in cui gli utenti si incontrano attorno ad un certo ambito come, per citarne uno, quello letterario.
Produttività: +20% con i social network
Un altro importante aspetto riguarda l’eterogeneità delle classi sociali a cui appartenevano i personaggi che popolavano i caffè, questo dava vita ad un confronto tra persone appartenenti a categorie sociali differenti e ad una ricchezza di opinioni che alimentava i dibattiti. Anche in quel periodo storico, come accennato prima, non mancavano polemiche circa le attività che si svolgevano all’interno dei caffè. Alcuni opinionisti dell’epoca ritenevano che questi luoghi fossero, per i frequentatori, una perdita di tempo. Al contrario, scrive Standage, erano proprio questi ambienti che stimolavano la creatività e la formazione delle idee e, a tale proposito, cita, tra diversi esempi, la Royal Society, nota accademia scientifica inglese fondata nel 1660, di cui i componenti, tra cui Isaac Newton, discutevano delle loro scoperte e tenevano conferenze all’interno degli stessi caffè inglesi. A supporto della sua teoria, Standage cita i risultati di una ricerca sull’uso dei social network sites all’interno delle aziende condotta, nel 2012, dalla società di consulenza McKinsey & Company, da cui risulta che la produttività dei lavoratori, che utilizzano i social network sites, è aumentata di circa il 20% (Di una parte dei risultati, ne discute M. Minghetti in I dieci processi da sviluppare in chiave social secondo McKinsey, articolo in Le Aziende InVisibili, Blog de Il Sole 24 ore, Agosto 2012). Anche Antonio Sgobba, con un articolo pubblicato sul sito on line del Corriere della sera, si sofferma sulle posizioni di Standage.
Il BLA BLA BLA influenza il mondo circostante
Fino ad ora abbiamo visto come, sia ieri che oggi, sono presenti delle diffidenze nei confronti dei luoghi di ritrovo, fisici e virtuali, in cui vi siano degli scambi di opinioni, idee e emozioni ma anche di semplici “chiacchiere”. La poca fiducia nelle dinamiche che si attivano, all’interno di questi luoghi, nasce dal ritenerle futili perchè categorizzate in una dimensione teorica in cui mancano i risvolti pratici all’interno della realtà concreta. Ma abbiamo anche visto come tali attività abbiano influito positivamente sulla conoscenza e, dunque, sulla quotidiana oggettività (ricordiamo come gli studi di Newton sulla gravità e sulla dinamica siano stati stimolati dai dibattiti nei caffè e, per fare altri esempi, sempre secondo Standage, anche il filosofo ed economista Adam Smith realizzò, nel 1776, l’opera intitolata La ricchezza delle nazioni all’interno della British Coffe House). E’ il caso di pensare a come le parole e i discorsi interagiscono con l’ambiente circostante. Le parole lo determina e, per questo motivo, non si può sottovalutare il loro ruolo e considerare i luoghi, in cui questo si esplicita (social network oggi e i caffè ieri), come spazi dove si “perde tempo”.
Un pò di linguistica…per non farci mancare niente
A supporto di tali considerazioni, è il caso di citare alcuni elementi appartenenti alla Teoria degli atti linguistici, elaborata dal linguista e filosofo John Langshaw Austin, resa nota durante una lezione presso l’Università di Harvard nel 1955 e pubblicata successivamente, nel 1962, all’interno dell’opera How To Do Things With Words. Soffermarsi sui principali aspetti di tale teoria, permette di riflettere sulle funzioni dell’attività linguistica e, in particolare, sulle influenze determinate, in passato, dai luoghi predisposti alla sua esercitazione: dalla retorica aristotelica e l’agorà dell’antica Grecia, all’oratoria di Cicerone e il Foro Romano, ai caffè del Seicento fino agli attuali social network sites.
La teoria degli atti linguistici si basa sul presupposto che con un enunciato non si possa solo descrivere il contenuto o sostenerne la veridicità, ma che la maggior parte degli enunciati servano a compiere delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo, per esercitare un particolare influsso sul mondo circostante.
Si è scelto di riportare la definizione di Wikipedia, poiché nel definire l’atto linguistico si evidenzia fortemente l’influenza degli enunciati sul mondo circostante. E` per questo motivo che le parole corrispondono a vere e proprie azioni: esse influiscono sull’ambiente in cui il parlante si trova ad esprimerle. Attraverso i suoi studi, Austin ha compreso come il “dire” corrisponde al “fare” e che, dunque, il linguaggio, come oggetto di studio, deve considerarsi un’azione. Per questo motivo, il linguista suddivide gli enunciati in performativi, dall’inglese to perform: compiere un’azione e in constativi:
- nel primo caso, gli enunciati sembrano descrivere l’azione ma in effetti la compiono
- nel secondo caso, gli enunciati non corrispondono ad azioni ma sono delle asserzioni di verità o di falsità
Dunque, la pronuncia delle parole implica la loro messa in pratica.
Non si dice “si, lo voglio” tanto per
Si potrebbe prendere come esempio la celebrazione di un matrimonio attraverso il rito cattolico, in cui l’affermazione “vi dichiaro marito e moglie” comporta un’azione corrispondente ad un atto pubblico, con il quale due persone dichiarano la loro unione sentimentale e contrattuale. Ma un enunciato per essere performativo, e dunque per poter dare luogo in modo effettivo ad un’azione, deve prevedere determinate condizioni quali:
- essere convenzionale
- dipendere da un contesto
- essere “felice” o “infelice”
Il contesto convenzionale indica che un enunciato, per compiere un’azione, deve essere espresso da certe persone in date circostanze mentre per contesto si intende che, al suo interno, persone e parole devono risultare adeguate, infine per essere “felice”, e dunque riuscita, l’attività di enunciazione deve attuarsi in modo corretto e completo.Per chiarire i passaggi fino ad ora citati, torna utile considerare ancora l’esempio del matrimonio. Quando due persone scelgono consensualmente di sposarsi, attraverso il rito contemplato dalla religione cattolica, il contesto convenzionale si può identificare con l’enunciato espresso da tali persone durante la celebrazione in chiesa, davanti al sacerdote. Per far si che il contesto risulti adeguato, al tempo stesso, i soggetti, e dunque la sposa e lo sposo, devono essere consenzienti e il sacerdote appartenere all’ordine della chiesa cattolica. Per far si che l’enunciato sia “felice”, e dunque che l’azione si compia in modo effettivo e che il matrimonio abbia validità, la procedura del rito deve svolgersi in modo corretto e completo: gli sposi dichiarano pubblicamente la reciproca intenzione a trascorrere la propria vita insieme, il sacerdote proclama i due sposi uniti in matrimonio e, alla fine della cerimonia, gli sposi e i testimoni firmano l’atto matrimoniale. Si tratta di infelicità dell’enunciato, e dunque della mancanza di azione, quando le condizioni sopra riportate non sono presenti. Ad esempio, il soggetto non può, per motivi di varia natura, compiere l’atto oppure non desidera ultimarlo o quando la procedura si svolge correttamente ma si presenta un evento che non permette la totale realizzazione dell’atto. Tornando all’esempio del matrimonio, l’infelicità dell’enunciato si verificherebbe se, durante la cerimonia, uno dei due sposi non desiderasse più sposarsi oppure se si scoprisse che il sacerdote non appartiene all’ordine cattolico o se un evento imprevisto interrompesse il rito.
Te lo sei letto tutto? No vabbhè, un mito!
Dunque, da quanto valutato fin ora, emerge il ruolo fondamentale delle parole e degli enunciati nella strutturazione della realtà circostante: è questo il motivo per cui non è possibile ignorare quei luoghi fisici e virtuali (social network sites ma anche forum, blogs, piattaforme on line, siti internet) in cui il loro scambio avviene, in modo continuo, generando azioni che danno luogo a forme sociali e simboliche della realtà.
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